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Quest’anno, in occasione del quarantesimo anniversario del terremoto che il 23 novembre 1980 colpì Campania e Basilicata, a riemergere non saranno solo i ricordi di chi visse il momento della scossa, delle persone scomparse e del ritardo dei soccorsi, ma il contributo dei volontari che dopo il sisma arrivarono nelle zone terremotate. Quando il valore della solidarietà nelle emergenze è tesoro inestimabile.
Una collega che insegna come me in un istituto tecnico di Arezzo mi ha raccontato che, durante il lockdown, un suo studente è andato in giro con la Croce Rossa a consegnare la spesa o i farmaci a domicilio agli anziani, e mi ha girato una foto di questo ragazzo, sorridente al fianco di una delle sue “nonnine”. Altri volontari della Croce Rossa raccontano che gli anziani insistono per offrire caffè e caramelle e che altri, nonostante le difficoltà economiche, vogliono a tutti i costi lasciare cinque euro all’organizzazione.
Una studentessa venezuelana ma di origini italiane, Flavia Chirico, ha lanciato una campagna per donare il ricavato della vendita delle sue t-shirt del progetto Flay-way all’ospedale “Giuseppe Moscati” di Avellino. Sulle magliette ha messo i disegni colorati dei bambini, con gli arcobaleni e il messaggio “andrà tutto bene”.
Sempre durante la pandemia, a Napoli, si sono inventati i “panari solidali”, replicati anche a Milano: un cesto di vimini, appeso al balcone, dentro il quale le persone offrono beni alimentari e di prima necessità a chi ne ha più bisogno, secondo il principio della spesa solidale o della colletta alimentare adattati ai principi del distanziamento sociale e alle precauzioni dovute al pericolo di contagio.
Anche un ciclista professionista originario del Bresciano, Davide Martinelli, impossibilitato ad allenarsi, ha deciso di usare i suoi muscoli e la sua bicicletta per consegnare la spesa a casa degli anziani e dei più bisognosi del suo paese.
Sono tante le storie di volontariato e solidarietà che i giornali e il web raccolgono e raccontano, in queste settimane di estrema difficoltà che penalizzano soprattutto chi era già debole.
Quando si parla di solidarietà si rischia di andare nella retorica, ma dire che il terzo settore e il volontariato sono una delle colonne portanti che sorreggono la società italiana non è un’esagerazione. Il terzo settore è un vero e proprio sistema che produce anche reddito e imprenditorialità, occupando circa 800 mila persone in Italia. Ma tracciare e censire nel dettaglio il numero dei volontari che in Italia sono attivi nella miriade di associazioni e realtà sparse sul territorio è davvero difficile.
Questa premessa per sottolineare come, nella storia italiana, l’impegno gratuito è una costante. Quest’anno, il 23 novembre, si commemorerà il quarantesimo anniversario del terremoto che colpì Campania e Basilicata, passato poi alle cronache e alla conoscenza dell’opinione pubblica come terremoto dell’Irpinia, l’area più colpita. Proprio in occasione degli anniversari appare chiara una distinzione. Oltre ai ricordi di chi visse il momento della scossa, di chi ricorda le persone scomparse e il ritardo dei soccorsi, l’irresponsabilità colpevole di chi approfittò per arricchirsi, gli sprechi e gli affari, c’è anche un notevole contributo dei volontari che dopo il terremoto arrivarono nelle zone terremotate. Spesso i volontari di allora uniscono in quel ricordo il dolore di cui furono testimoni e la consapevolezza di aver compiuto un gesto solidale per soccorrere chi era in difficoltà. Sono stati tantissimi quelli che negli anniversari sono tornati nei paesi in cui operarono allora e che mantengono contatti assidui coi cittadini dei paesi del cratere terremotato. La loro può quindi definirsi una «memoria eroica», che spesso si affianca alle memorie più problematiche.
Naturalmente parlare in senso ampio di solidarietà e parlare di volontariato delle emergenze richiede delle distinzioni, approfondendo e definendo meglio la categoria concettuale del rischio.
Però è forse utile ripercorrere i grandi passi in avanti compiuti nei vari decenni che ci separano dal 1980 fino ad arrivare alle realtà che agiscono oggi, certamente in maniera molto più organizzata e diffusa.
LA CRONISTORIA DELL’EMERGENZA E DELLA SOLIDARIETÀ
Le forme e le modalità d’intervento in emergenza ovviamente si sono modificate nella storia repubblicana italiana, soprattutto prima e dopo il 1992, quando è nata la Protezione civile che ha inserito il servizio del volontariato tra le sue componenti attive, cosa che è stata poi ribadita più di recente dal decreto del 2018.
Anche in Irpinia e Basilicata la presenza di associazioni e esperti si è molto radicata proprio negli anni della ricostruzione e oggi si possono contare numerose realtà valide e diffuse (penso in particolare alla Croce Rossa, alle Misericordie e all’Anpas) che hanno formato tra le loro fila volontari capaci e competenti che sono intervenuti nelle varie emergenze degli ultimi anni con ottimi risultati.
Prima del 23 novembre 1980, il volontariato e la solidarietà che conducevano associazioni, gruppi, enti locali e singoli cittadini a muoversi in prima persona per aiutare i territori colpiti da calamità erano un dato di fatto.
Il 4 novembre 1966 l’Arno straripò e invase le strade di Firenze. Nei giorni successivi la diffusione della notizia a livello nazionale e internazionale e il pericolo che correvano le opere d’arte degli Uffizi e degli altri musei fiorentini, i libri della Biblioteca nazionale e il patrimonio inestimabile della città ebbe come effetto l’arrivo nel capoluogo toscano di ragazze e ragazzi giovanissimi, attrezzati con i propri mezzi, che suscitavano in un primo momento diffidenza e scetticismo a causa del loro aspetto (erano i cosiddetti “capelloni”). Però questi giovani scoprivano attraverso il rendersi utili la consapevolezza e l’impegno.
Dopo il 23 novembre 1980 fu molto importante l’appello di Pertini in televisione, il 26 novembre, ad accelerare l’ondata di solidarietà e le partenze. Lo stesso presidente della Repubblica fu accolto da manifestazioni di rabbia dei terremotati per il ritardo dei soccorsi e l’assenza di mezzi idonei per salvare chi era sepolto sotto le macerie.
In un filmato della Rai un signore di Sant’Angelo dei Lombardi diceva:
«Ci sono ancora centinaia di cadaveri: perché non vengono queste autorità italiane? Tutte le nostre speranze era tutto il nostro paese. Una volta finito il nostro paese l’Italia non si interessa più e nemmeno a noi ci interessa più del governo italiano.»
Lina Wertmuller, nel suo documentario del 1981 (“Era una domenica sera di novembre”) che racconta il terremoto in maniera diretta e significativa, definisce così il movimento di solidarietà che tentava di porre rimedio a questo senso di abbandono e sfiducia che era presente nei paesi terremotati nelle prime ore:
«Sono arrivati a centinaia da tutte le regioni questi volontari. I giovani sono la presenza più massiccia e notevole. Questi volontari sono l’ossatura segreta del paese, quelli che non aspettano la lentezza della burocrazia, i ritardi delle autorità ufficiali, che passano sopra le divisioni politiche, che affrontano qualunque situazione drammatica con la voglia di rendersi utili e di aiutare.»
La rete delle parrocchie e dell’azione cattolica fece la sua parte nella raccolta fondi e nell’invio di volontari e mezzi per il soccorso ai terremotati; i primi a spingere per portare aiuto e conforto alle popolazioni irpine e lucane furono gli emigrati di prima e seconda generazione, che mettevano subito in allarme le proprie reti relazionali e spesso partivano in prima persona alla volta dei luoghi terremotati.
Le parole che seguono sono quelle di un ragazzo di allora, originario della zona terremotata, che all’epoca viveva a Foggia:
«Nel giro di qualche giorno riuscimmo ad ottenere dalla parrocchia un pulmino per portare soccorso alle zone terremotate e, con l’aiuto di altri volontari, tutti più grandi di me (all’epoca avevo 19 anni), partimmo alla volta di Teora, dove installammo alcune tende e una cucina da campo. Quello che ricordo di quei giorni sono tanti frammenti, quasi tutti drammatici; per esempio il forte odore di disinfettante, misto alla puzza dei cadaveri ancora presente; le file lunghissime davanti all’unico telefono installato con qualche difficoltà alcuni giorni dopo il sisma e posto vicino alle tende, nel campo sportivo, in cui si alternavano per telefonare i terremotati, gli emigrati che prestavano soccorso, i volontari e i militari. Ricordo che nei giorni trascorsi a Teora parlai pochissimo, intontito dalla situazione surreale ma allo stesso tempo tragica; cercai di concentrare le energie nel lavoro manuale che era necessario.»
La notte tra il 23 e il 24 il caos dei soccorsi ebbe effetti drammatici; gli stessi responsabili dell’esercito ammisero sulla stampa che la reale dimensione del disastro fu chiara solo il mattino del 24, quando i primi elicotteri sorvolarono l’area colpita.
La mancanza di una cabina di regia complessiva renderà poco razionali e sproporzionati gli interventi, soprattutto di quelle unità specializzate che pure erano disseminate nelle varie regioni e che si misero in marcia verso l’Irpinia; per esempio, da Parma partì una pattuglia con medico, unità cinofile e radioamatore che però non sapeva bene dove andare a intervenire, perdendo tempo prezioso come racconta un volontario, Marco Nadalini:
«Ci vengono indicati sulla carta alcuni paesi che probabilmente non sono ancora stati raggiunti, per la prima volta sentiamo nomi che diverranno in seguito tristemente famosi: Santomenna, Castelnuovo di Conza, Morra, Valva, Senerchia. Senza un’esatta motivazione, decidemmo di comune accordo di recarci in quest’ultimo paese. Alle 9.30 entriamo a Senerchia. Ci accoglie un cartello con scritto “Benvenuti a Senerchia”, che nella fattispecie acquista un sinistro significato.»
Il numero complessivo dei volontari che transitarono nelle zone terremotate, alcuni per poche ore, altri per mesi, è difficile da ricostruire. Non esisteva la Protezione civile e non esisteva quindi una mappatura capillare di chi entrava e usciva dai paesi e dalle città colpite. A voler fare una suddivisione di massima sulle categorie dei volontari si possono trovare le squadre organizzate dagli enti locali, le associazioni tecniche e specializzate, i circoli e le organizzazioni di partito, i sindacati e i gruppi di lavoratori, l’associazionismo cattolico, le parrocchie e le diocesi, le scuole e le università e i gruppi spontanei.
I comuni, le province e le regioni furono inquadrate, dopo alcuni giorni di iniziale sbandamento, nei gemellaggi gestiti dal commissariato di Giuseppe Zamberletti. Questi gemellaggi hanno mantenuto una vita duratura e taluni sono ancora solidi e attivi, come testimoniato dalla toponomastica in alcune zone e quartieri dei paesi terremotati. Le grandi città metropolitane fecero molto per i terremotati anche grazie al dislocamento di tecnici che aiutarono a organizzare gli insediamenti provvisori e la ripresa dei servizi e delle reti fognarie, elettriche e idrauliche.
Uno storico ruolo di assistenza in caso di necessità, ma anche di soccorso di Protezione civile, è rappresentato dalle Confraternite di Misericordia, attive già nelle città medievali (la prima confraternita di Misericordia nacque nel 1244 a Firenze) e che sono andate migliorando, nel corso dei secoli, le proprie competenze; attualmente, secondo quanto afferma l’organigramma della Misericordia, nel settore “Protezione Civile”, in caso di calamità sarebbero pronti ad intervenire sul territorio nazionale circa duemila volontari specializzati Già nel 1980 questi operatori-volontari erano presenti e uno di essi ha raccontato, in un volume autobiografico, l’esperienza di quei giorni. Ecco cosa racconta un volontario della Misericordia di allora:
«Dopo essere stati divisi in gruppi, insieme ad altri confratelli della Misericordia di Prato fummo dirottati a San Mango sul Calore. Giunti al paese, e più precisamente in un piccolo spiazzo con una fontana e di fronte ad un vespasiano che già emanava una puzza nauseabonda, inevitabilmente ci dovemmo fermare, anche perché non vi era più modo di andare avanti, a causa della strada completamente interrotta dalle case crollate. Fummo presi d’assalto, tutti volevano essere i primi a farsi medicare e visitare. (Vidi) uno “spettacolo” terrificante, l’intero paese era ridotto ad un ammasso di macerie, non si vedeva neppure una casa in piedi. Dietro a quelle poche abitazioni che avevano resistito al sisma, c’era solo un enorme montagna di pietre che restituivano un’immagine spettrale e di morte da far venire i brividi anche ad uno come me, che nella vita ne aveva viste di tutti i colori.»
Il testimone in questione è Giovanni Cini, anche detto “Giovanni della Misericordia”. Dopo il 1980 si stabilì ad Avellino, dove contribuì in modo determinante alla crescita della sede locale della Confraternita di Misericordia. È scomparso di recente.
IL RUOLO GIOCATO DAI SINDACATI
L’Italia viveva un periodo durissimo della propria storia. Il terrorismo si imponeva con allarmante frequenza con le sue azioni criminali all’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni. Appena un mese prima del terremoto si era verificata una vicenda che ebbe notevoli strascichi nel panorama della conflittualità sociale e all’interno del mondo del lavoro: la decisione della Fiat di tagliare un numero cospicuo di posti di lavoro e le lotte degli operai a difesa di quei posti, lotta che li vide soccombere.
Il fatto che quegli operai decidessero di recarsi in Irpinia rappresentò un momento interessante, poiché permetteva di alleviare un momento di crisi della militanza politica e sindacale sostituendola con una pratica allo stesso modo militante ma in direzione della solidarietà. Inoltre, molti degli operai e dei lavoratori che dalle aziende Nord si fecero mandare nelle zone colpite erano di origine meridionale. Il sindacato fu tra le strutture organizzative dei soccorsi che funzionarono meglio; questo si può facilmente spiegare con l’organizzazione confederativa e disseminata, che può cercare al suo interno sia le specificità professionali sia mettere in moto le sottoscrizioni e progetti di ripresa di più ampio respiro (strutture provvisorie e definitive da costruire nei paesi gemellati o collaborazioni formative a carattere imprenditoriale). Si calcola in maniera approssimata che furono circa 10 mila i volontari che il sindacato dislocò sul campo durante la prima settimana.
Non mancarono occasioni di contrasto politico tra volontariato di sinistra e amministrazioni democristiane; a volte queste divisioni portarono anche ad alcune espulsioni e fogli di via verso chi era sospettato di fare proselitismo politico o addirittura eversivo. Tuttavia, ci sono stati anche casi di fattiva collaborazione; in questi casi, di solito, si preferiva concentrare l’attenzione sulle cose da fare e al limite dividersi i compiti senza per forza entrare in competizione e conflitto. In generale, si può schematicamente affermare che dove si trovarono di fronte rappresentanti dei rispettivi schieramenti dotati di buon senso, si riusciva a trarre profitto dalla collaborazione ed evitare strumentalizzazioni, altrove, di fronte a caratteri accesi e non dialoganti, si finiva per scontrarsi.
A questo proposito si può citare la testimonianza di Luisa Morgantini, che nel 1980 era sindacalista della Flm Lombardia e ha poi ricoperto vari ruoli importanti a livello internazionale, tra i quali la vicepresidenza del Parlamento Europeo. Luisa Morgantini visse a Teora per circa un anno dopo il terremoto.
«A Natale ero stata invitata a casa di una famiglia e mi avevano dato dei dolci, che si chiamano zeppole. Io le avevo trovate molto buone. Questi dolci si fanno a Natale, ma chi è in lutto non può farli, sono gli amici che le portano. Allora mi è venuto in mente di proporre: facciamo zeppole per tutti, siccome quasi tutti hanno parenti morti, organizziamo un gruppo di persone che distribuiscono le zeppole, cosa che abbiamo cercato di fare. Con grosse difficoltà iniziali, perché le donne dicevano: ma no, non è possibile, siamo in lutto. Poi invece proprio le donne hanno risposto con un grande entusiasmo, e se mancava un ingrediente, o mancava il tompagno, che è uno strumento che si usa qui per fare la pasta, saltava fuori, insomma abbiamo trovato tutto e sono arrivate al mattino, per la preparazione, dodici donne; siamo riusciti a metter su , con dei metalmeccanici, una specie di baracchino, abbiamo trovato bombole di gas e fornelli, che in quei momenti lì non c’erano proprio, e siamo riusciti a fare una quantità di zeppole inverosimile, con le donne che erano contente di farle.»
La condivisione, la relazione umana e l’imperativo morale di aiutare chi era in difficoltà emerge bene da queste parole e anticipa anche la motivazione idealistica e politica. Oggi questo è ancora più significativo, perché ideali e impegno militante sono probabilmente affievoliti rispetto a quel contesto storico. Chi visse in prima persona il terremoto e i giorni dell’emergenza, si può dire che chi partecipò come volontario, come militare, in modo spontaneo, ricorda i giorni di permanenza nelle aree terremotate come un’esperienza di arricchimento, di condivisione e di partecipazione, seppur vissuta in mezzo a enormi difficoltà e a stretto contatto con il dolore dei terremotati.
Per gli irpini e i lucani ricordare quella sera di novembre vuol dire ricordare anche la paura, la perdita di persone care o di luoghi familiari, ma anche collegare il ricordo alla narrazione dialettica che l’opinione pubblica ha adottato di quell’evento, cioè i ritardi e gli sprechi di denaro pubblico, la trasformazione radicale dei contesti sociali e urbanistici. Di sicuro, quindi, è una memoria più difficoltosa rispetto a chi ha vissuto quella fase come una parentesi, di solito bella, di pochi giorni.
Di certo, chi ha creduto di fare delle zone terremotate un laboratorio politico e ideologico, quando ha visto prevalere interessi e gruppi che gestivano la spesa pubblica, ben diversi anche dalla classe amministrativa locale, si è sentito tradito e ha considerato fallito il suo obiettivo di quei mesi. A testimoniare una lettura positiva e viva riporto una testimonianza di un volontario di Mantova, Vincenzo Cantarelli, che era stato assegnato al cimitero di Sant’Angelo dei Lombardi;
«Il viaggio di ritorno l’ho fatto su un furgone della Croce Rossa, sdraiato dietro su scatoloni di attrezzature. Ero ridotto da sembrare un profugo sfuggito da una zona di guerra. Stivaloni di gomma, giacca a vento e pantaloni lerci, capelli arruffati, barba lunga incolta e zaino militare in spalla pieno zeppo di indumenti sporchi di fango ormai seccato. Attaccato alla giacca, tenevo in bella vista il tesserino di riconoscimento con la mia fotografia dove si poteva leggere “Colonna mantovana soccorsi pro Irpinia”. Lo tenevo in bella vista appuntato sul petto per non essere scambiato per un barbone, ma soprattutto lo tenevo lì per orgoglio.»
Un anno fa mi è capitato di percorrere insieme ad altri quaranta cicloturisti la ciclovia dell’Acquedotto Pugliese. Nelle prime due tappe, a Caposele e Calitri, abbiamo avuto modo di vedere e commentare gli effetti della ricostruzione dopo il terremoto in alcuni paesi. Alcuni di quei cicloturisti, provenienti per lo più da Siena, era stato volontario nel 1980, proprio in quegli stessi paesi, e ricordava la grande compostezza, l’ospitalità, la buona cucina e la semplicità di quelle persone. Tutte queste cose le hanno poi ritrovate a quarant’anni di distanza. Nonostante tanti episodi e problemi che hanno riguardato la ricostruzione irpina, quindi, la gratitudine di chi fu soccorso e lo slancio solidale di chi soccorse possono essere un segno, un patrimonio concreto da applicare anche all’emergenza dei giorni presenti, quella di un virus sconosciuto che potrebbe minare e rendere peggiori i rapporti e le relazioni sociali.