Dall’arrivo al pronto soccorso dopo un incidente alle dimissioni: «Grazie a tutto il personale, il tempo è volato nonostante la paura»
«Aiuto, devo andare all’ospedale, non voglio». È questo il primo pensiero che mi è passato per la mente mercoledì sera. Poche ore prima ero rimasta coinvolta in un incidente stradale. Niente di grave, per fortuna, ma con la nausea che aumentava minuto dopo minuto e tutti gli ammacchi, un controllo risultava essere necessario. E anche se di controvoglia, mi sono fatta forza e mi sono fatta accompagnare fino al pronto soccorso dell’ospedale Misericordia dove, per le normative anti Covid, si entra da soli, senza che qualcuno possa stare lì a tenerti la mano. Ed ecco che il terrore ha cominciato a salire insieme alla sensazione che quella giostra possa girare senza fermarsi.
Non piace a nessuno farsi sdraiare su un lettino, farsi mettere un collare e nemmeno farsi bucare un braccio. Ma tant’è, bisogna farlo. Comincio a respirare, appellandomi a tutti i principi della mindfullness e del training autogeno per non farmi sopraffare dal terrore, quando arriva lei, un’infermiera esile, sicuramente carina sotto la sua mascherina che le nasconde la faccia. «Lei è un’incosciente – attacca subito – non si va a casa dopo un incidente, si chiama l’ambulanza e si viene all’ospedale».
Il tono è perentorio ma gli occhi le sorridono. Si chiama Silvia Cardillo Piccolino, ma io non lo sapevo. L’ho scoperto ieri, quando ho cercato di dare dei nomi ai volti delle persone che mercoledì sera si sono prese cura di me, così come ho scoperto che in turno c’era anche Sara Martelloni. Tornando alla sua presentazione, penso subito di essere finita in un giro di schiaffi. Mi fa accomodare in un’altra stanza, mi mette un collare rigido che fa un male tremendo e mi spiega che mi bucherà una vena per fare un prelievo. Ho il terrore degli aghi e per di più le braccia tatuate proprio dove si fanno di solito le analisi. Le ho quasi tatuate apposta in quel punto, per scacciare da me l’idea di poter essere bucata. Cerca di rassicurarmi: «Provo a non bucarti il tatuaggio». «Fai pure, lo fanno tutti», rispondo pensando che comunque è meglio che l’ago prenda subito la vena anche bucando un po’ di colore. Nulla, non ci sente. Un respirone e via: l’ago è dentro. Sussulto.
«Brava, non ho sentito nulla». «Non è vero – dice – hai sussultato». Tra una battuta e un’altra mi dice che tornare a casa dopo un incidente è da matti e che andrebbe scritto su tutti i giornali. Io invece, sul giornale voglio scrivere quanto sia stata brava lei. E non solo: quanto lo sia stato il tecnico di radiologia, Marco Bastreghi, che ha guardato se avessi ossa rotte, o il medico di guardia, Michele Biagi che pur di farmi stare tranquilla mi ha dato del tu, dicendomi che insomma, avevo solo pochi anni più di lui. Ecco, il dottore ha centrato un punto importante: il terrore, a più di quarant’anni, di affidarsi a chi di anni ne ha meno. Ha centrato quel sentimento di diffidenza che crescendo certe volte si insinua e non va via. Mercoledì sera al pronto soccorso quella diffidenza è scomparsa.
Non c’era certo una festa ma ho comunque sentito cantare Lidia Gavvron, operatrice socio sanitaria che aveva compiuto gli anni la sera prima. Io le ho fatto gli auguri, mentre lei mi spostava da una stanza all’altra, sorridendo e cantando. La canzone di “Frozen”, Lidia la conosce in giapponese. La canta in giapponese e pare che anche tutti quelli del suo turno abbiano imparato una strofa per farle il coro. Io non la conoscevo ma ho riso tanto. E mi è tornato il buonumore, così come quando un altro operatore Lorenzo Bianco, mi è venuto a riprendere in radiologia. Mi spingeva fortissimo, sembrava quasi un gioco. Forse non è vero, ma sdraiata su quella barella sembrava che fosse così. Alla fine, quelle tre ore passate al pronto soccorso, sono state una gran lezione: ho imparato che nonostante il dolore (fisico) e la paura è possibile sorridere se le persone che abbiamo intorno lo fanno. E per quelle tre ore di sorrisi, io non posso fare altro che ringraziare tutti coloro che si sono presi cura di me.
«I professionisti del pronto soccorso e dell’emergenza urgenza sono un’eccellenza e operano in un ambito davvero delicatissimo – dice il presidente dell’ordine degli infermieri Nicola Draoli – È importante e doveroso riconoscere la loro azione che mai è scontata». Io l’ho riconosciuta e ne sono davvero felice. —