Ai tempi del coronavirus l’umanità intera si scopre vulnerabile. Un virus ha universalizzato la minaccia, estendendola a livello planetario. In tantissimi anni nessuna guerra, crisi o catastrofe naturale aveva sottoposto l’umanità intera a una medesima pressione di fronte a una minaccia condivisa. Poiché nella percezione comune ci sentiamo in qualche modo costantemente immuni da qualsiasi tipo di catastrofe – che è sempre troppo lontana da casa nostra per poterci interessare – il coronavirus mette in luce la nostra esposizione al rischio, che oggi più che mai risulta endemico.
È una delle prime sfide di quest’ultimo millennio, condivisa unilateralmente in tutto il globo, che non tiene conto di età, status o appartenenza politica. Colpisce tutti. Nonostante però la condivisione del pericolo a livello globale, alcuni Paesi, e in particolare alcune categorie sociali, risultano particolarmente vulnerabili. La vulnerabilità nel mondo è infatti distribuita in modo ineguale: vi sono delle vite protette e delle vite che risultano invece particolarmente esposte al rischio.
Ci troviamo di fronte una triste verità: non tutte le vite umane hanno lo stesso valore. E questo non è certo legato a chi muore di virus e chi invece no. È piuttosto una contingenza legata a chi può accedere alle cure mediche, chi può permettersi anche una settimana senza stipendio, chi ritornerà al proprio lavoro finita la pandemia, chi ha un’abitazione in cui rifugiarsi e chi invece no. Nella valorizzazione delle vite umane quindi alcune contano più di altre e nel mondo delle vite superflue ogni perdita, anche la più atroce e violenta, passa in sordina.
Tra
le forme contemporanee di vulnerabilità, oltre alla ferita, che implica quindi
un’azione attiva di violenza, vi è l’abbandono.
L’abbandono implica una non azione
ancora più subdola e violenta della ferita. Nell’abbandono la vittima viene
disumanizzata, così da non risultare meritevole di aiuto e protezione.
Nella governance internazionale, lo Stato neoliberale privilegia delle vite abbandonandone altre a cui viene chiesto di resistere, di essere responsabili e “resilienti”. Questa parola, così in voga negli ultimi anni, che chiede alla società colpita da un qualche tipo di shock di affrontarlo e tornare alla condizione di stabilità, punta sulla capacità dell’individuo di farsi carico dei propri bisogni e colmare le proprie necessità.
“Siate responsabili!”, lo abbiamo sentito ripetere tante volte in questo periodo. Ma la responsabilizzazione implica, allo stesso tempo, il ritiro dello Stato dalla sfera pubblica e dai bisogni dei cittadini. La chiamata alla responsabilità individuale e alla resilienza diventa oggi il manifesto dell’abbandono da parte delle autorità statali. Il concetto di responsabilizzazione è stato usato per giustificare la cessione degli obblighi dello Stato agli individui, a cui è stato chiesto di essere autonomi, autosufficienti e indipendenti. Responsabilizzare gli individui quindi per delegittimare lo Stato ad intervenire, così che mentre lo Stato indietreggia rispetto ai suoi doveri sociali, la scelta degli individui, autonoma e responsabile, diventa parte della nuova governance globale.
La lotta contro lo Stato previdenziale è stata portata avanti già a partire dagli anni ’70. Le offensive contro il potere sindacale e dei lavoratori, la riduzione delle spese pubbliche sono diventate il vessillo in seno alla responsabilità individuale che diventa il principio regolatore delle politiche pubbliche. Viviamo nell’era in cui la supremazia del mercato, degli scambi e della massimizzazione dei profitti sono alla base della legittimità statale. L’era in cui l’economia e i suoi attori hanno libero arbitrio, in cui i valori fondanti le democrazie liberali – libertà, uguaglianza e solidarietà – lasciano il posto alle logiche economiche.
Ci
hanno così detto di essere responsabili, non scaricando i nostri bisogni sullo
Stato. Ci hanno insegnato ad essere resilienti e che occorre saper accettare e
sopravvivere alle contingenze turbolente della vita. Ci hanno detto che i
nostri insuccessi sono determinati dalle nostre scelte personali e non dai
fallimenti dello Stato. Abbiamo così imparato ad agire come un puro capitale
umano, ad essere competitivi e a mettere a valore le nostre capacità. Ci hanno
convinti che uno Stato previdenziale è la causa delle peggiori crisi
economiche, che i sussidi sociali creano parassiti e che tutte le scelte umane
dovrebbero prima passare da considerazioni di redditività. Abbiamo così
iniziato a privatizzare i settori – un tempo pubblici – e a mettere a valore
ogni ambito della vita privata.
Di fronte all’emergenza covid-19 ci saremmo potuti trovare più preparati, con un sistema sanitario più solido, centri di ricerca con finanziamenti adeguati, una copertura lavorativa e abitativa atta a rispondere a casi eccezionali. Vediamo oggi gli impatti di decenni di politiche socioeconomiche che hanno indebolito il sociale, puntando esclusivamente sul settore economico. I pilastri della democrazia neoliberale stanno mostrando le loro crepe.
Oggi ci è stato chiesto di fermarci. E forse in questo tempo lento, intimo e meditativo, si potranno esplorare i fallimenti di un approccio così individualista, imparando ad abbandonare i calcoli costi-benefici e iniziando a praticare l’empatia e la solidarietà come medicine per l’anima e la collettività.