Si è celebrata come ogni anno, il 13 novembre, la giornata mondiale della Gentilezza una sorta di ricorrenza per divulgare questo atteggiamento. L’idea base del Movimento Mondiale della Gentilezza (WKM) nasce in una conferenza a Tokyo nel 1997 quando il The Small Kindness Moviment of Japan riunisce i movimenti per la gentilezza in tutto il mondo. Il lancio ufficiale del WKM avviene a Singapore il 18 novembre 2000 in occasione della terza conferenza del WKM con l’obiettivo di «connettere le nazioni per creare un mondo più gentile».

Una carta di intenti che, nel mondo, si declina a seconda della lettura che nei diversi Paesi viene fatta: si va dall’anima ambientalista in quello americano a quella orientata al senso civico del movimento italiano. Fondato da Giorgio Aissa e sua moglie Marta, il movimento italiano punta a sostenere la gentilezza «come senso civico,vale a dire rispetto per le regole e solidarietà nei confronti di chi ha più bisogno». Oggi sulla spinta del WKM si assiste a due fenomeni: l’emergere in chiave divulgativa di un corposo filone di ricerche scientifiche che attestano gli effetti benefici della gentilezza sulla salute, soprattutto sulla salute del cervello (essere gentili favorisce la nostra capacità di essere empatici e solidali ) e quello relativo alla evidenza dell’impatto positivo sulla produttività in azienda.

La gentilezza tanto nella sfera privata che in quella professionale viene considerato un tratto che può essere appreso e affinato.E non solo:tanto altro ancora come ha egregiamente messo in evidenza Gianrico Carofiglio (Della gentilezza e del coraggio, Feltrinelli, 2020). La città, luogo storicamente privilegiato per la nascita delle “buone maniere” o, meglio, “maniere civili”, dell’urbanitas appunto, che si oppone al mondo della campagna tradizionalmente definito “rustico” e “villano”, sembra oggi, inadeguata a esprimere tale origine.

La vita scortese, e spesso violenta, delle nostre odierne metropoli ci induce frequentemente a mettere in dubbio l’etimo del termine urbano (“modi urbani!”).Gli indicatori di tale maleducazione sono noti a tutti: passare col semaforo giallo, calpestare le aiuole, insudiciare le strade dei centri storici, imbrattare i muri, rivolgere villanissimi insulti; assaltare le strade con moto e monopattini elettrici; e ancora: non rispettare il divieto del fumare, scavalcare le file, fare rumori e strepiti, essere sgarbati, e così via. Ciò che colpisce è l’uso della parola sconcia, sordida, sconveniente, presente ovunque: in uffici, caffè, bar, fast food, sugli autobus. Un’ansia di sfogo, un’arroganza incontenibile, un’aggressività collettiva, intese a dare libera espressione a sentimenti repressi, a compensare frustrazioni, a ricercare identità fittizie, sembrano crescere, di giorno in giorno, in un Paese come il nostro (anche se non solo: ma non è un motivo di consolazione, anzi direi di ulteriore preoccupazione), dove decrescono, in misura proporzionale, la delicatezza d’animo, il piacere dell’incontro, il dialogo delle intelligenze, il senso di solidarietà, le meraviglie dell’incanto.

Le cause? Strisciante semianalfabetismo civico, diffuso lassismo, vantato disprezzo delle regole, caratteriale furberia, strafottenza dissennata dei singoli, familismo amorale e non, stucchevole perdonismo, solidarietà e tolleranza di superficie. Ancora: il demagogico irenismo, il piacere di infrangere elementari princìpi di convivenza, il bullesco trionfo del “se po’ ffa”, il motivo centrale che elettrizza Il paese del pressappoco ( saggio di Raffaele Simone, 2007). In una società frantumata, in epoca Covid, e a tratti violenta, essere educati può far correre dei rischi. Chi, rispettando le norme del civile parcheggiare, non lascia l’auto in seconda o terza fila, sarà costretto a farsi scomode camminate in un mondo di comodi furbi. Chi, entrando in un locale pubblico, tiene aperta la porta per quelli che lo seguono, verrà trattato come fosse il portiere. Chi, telefonando, non esordisce con un rozzo “pronto chi parla?”, ma saluta, dice il proprio nome e, solo dopo, chiede della persona che gli interessa, sarà considerato un alieno. Insomma: oggi chi tiene in gran conto le buone maniere si espone al rischio non-virtuale di diventare vittima delle cattive. Appunto per questo, alla fine, ci si guarda bene dall’essere gentili: per non apparire deboli! La maleducazione sembrerebbe il prezzo da pagare alla sopravvivenza.

Ma tutto ciò è profondamente deludente! Proprio per noi che abbiamo insegnato il vivere civile a tutte le corti dell’Europa: il Rinascimento italiano assegnava alla cortesia una funzione centrale all’agire umano e politico. Il Cortegiano di Baldassar Castiglione fu un vero best-seller ai suoi tempi. In una società così involgarita, in cui non c’è posto per le maniere gentili, s’impone la necessità di un’impresa educativa di grande respiro. Guardandosi però da atteggiamenti meramente moralistici e repressivi; occorre invece educare i giovani a capire che il mondo è un posto dove i sentimenti vanno rispettati. Certo, si può correre il rischio di essere meramente formali, accorti, deferenti (G. Axia parla di «cortesia negativa») solo per circostanza; mentre bisogna capire cosa l’altro desidera davvero in un certo momento: può andare bene una battuta, un’affermazione affettuosa, un complimento, in una parola, un gesto di prossimità sociale e, oggi, di vicinanza fraterna.

Non ci sono regole, se non quella di essere autenticamente solidali («cortesia positiva»; G. Axia, 1996). Occorre affrontare il problema centrale, che non può essere trascurato sotto il profilo educativo e morale, quello, cioè, della scelta che compete a ciascuno: ognuno sceglie, parlando e non, sempre quello che vuole essere. Tutti esprimiamo il nostro essere attraverso un certo linguaggio che usiamo, così come attraverso i gesti che facciamo, certi atteggiamenti che assumiamo, certi ragionamenti che costruiamo, certi modi relazionali che stabiliamo. E, in un mondo-Covid, siamo al tema noto: promuovere e diffondere la cultura della responsabilità.



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