Donatella Raffai è morta ieri a Roma a 78 anni. Era malata da tempo. Nata a Fabriano l’8 settembre del 1943, era figlia di Antonio Raffai e di Maria Jelardi, entrambi nobili. Aveva esordito 16enne nel film «Dolci Inganni» di Lattuada per poi lavorare in discografia anche con Claudio Baglioni per la Rca. Dopo alcuni programmi radio, il successo arriva nel 1989 con «Chi l’ha visto» condotto nella prima edizione con Paolo Guzzanti. Dopo la Rai, passò a Mediaset per Giallo4 su Rete4. È stato il suo ultimo programma prima del ritiro definitivo.
C’era sempre una domanda, sempre la stessa, che i giornalisti ponevano a Donatella Raffai. Quando torna a casa dopo una puntata di Chi l’ha visto?, come riesce a dimenticare l’angoscia con cui ha dovuto convivere durante il programma, a contatto col dolore di tante persone? Anche la risposta era sempre la stessa: «Non ci riesco». Forse sta proprio in questa disarmante ammissione d’umanità unita alla laconica stringatezza della risposta – lo stile della giornalista marchigiana scomparsa ieri a 78 anni, dopo una lunga malattia, e giustamente ricordata come colei che (assieme a Paolo Guzzanti) conducendo per quattro stagioni il programma «investigativo» della Raitre di Guglielmi, dette prova, nel maneggiare una materia tanto inedita e insidiosa, di sobria asciuttezza, d’inattaccabile rigore. Erano gli anni in cui furoreggiava la «tv del dolore» e sarebbe stato facile, per un programma così, far scivolare il tutto verso le derive dello spettacolo più becero. Ma lo scabro stile senza fronzoli della Raffai era lì, a tenere la barra diritta; e la sua umanità, ben mascherata da un professionismo impeccabile, stemperava le inevitabili implicazioni morbose.
Non è un caso che un turbine di polemiche avvolgesse, da subito, il rivoluzionario programma. «Se uno vuol sparire senza spiegazioni, perché tampinarlo?», ci si chiedeva. Col diritto dello spettacolo, avrebbero risposto (avendone il fegato) i dirigenti di Raitre, che avevano subito intuito le enormi implicazioni emotive e i conseguenti, ragguardevoli risultati d’ascolto promessi dal format. E gli ascolti ci furono, subito, raggiungendo e attestandosi sui tre milioni anche nelle stagioni successive. Fortuna che con i primi ritrovamenti, e proprio grazie alla limpidezza a tutta prova della conduttrice, l’obbiettivo civico di Chi l’ha visto? bilanciò i rischi di una facile strumentalizzazione.
Grazie alla Raffai il pubblico partecipava e si emozionava, si, ma cercava anche di dare una mano. E spesso ci riusciva. Perfino la Polizia di Stato elogiò pubblicamente il format, per la collaborazione che forniva nel rintracciare persone scomparse, precisando di avvalersi spesso (come continua a fare tutt’oggi, che il testimone è passato a Federica Sciarelli) di indizi e segnalazioni forniti dai suoi telespettatori. Del resto era proprio nel campo della tv «utile», che la Raffai s’era fatta le ossa: un lontano esordio nel cinema (fece la comparsa in Dolci inganni, di Lattuada), qualche breve esperienza nel mondo della canzone (curatrice d’immagine per gli ancora giovani Nada e Claudio Baglioni) aveva infatti preceduto alcuni programmi radiofonici che già mettevano a fuoco la sua vocazione «sociale», come Radio anch’io o Chiamate Roma 3131, e un significativo debutto tv nel Telefono giallo di Corrado Augias. In seguito ci furono altri titoli, tutti targati Raitre e tutti variazioni sullo stesso tema dell’impegno civile: Filò, Camice bianco, Posto pubblico nel verde. A ulteriore prova della serietà della persona, anche dopo la vasta popolarità raggiunta fra il 1989 e il 1994 con le quattro edizioni di Chi l’ha visto? l’obiettivo rimase sempre quello: prima in Parte civile (dedicato alla denuncia di ingiustizie patite dai cittadini) e poi con Giallo 4 (prodotto da Retequattro, quando la giornalista si trasferì a Mediaset) la Raffai continuò a fare una tv di alto profilo civico, sempre dribblando le insidie di un banale sfruttamento morboso ai fini dell’Auditel.
In fondo anche nell’inattesa decisione che prese vent’anni fa, quando si allontanò dal video per ritirarsi nella sua casa di Morlupo, alle porte di Roma, per dedicarsi solo alla famiglia e senza mai cedere alle lusinghe d’un possibile (e forse sollecitato) rientro, c’è molto del suo modo d’intendere la tv, fatto più di sostanza che di apparenza. Tanto più in un ambiente come quello televisivo, che del presenzialismo ad ogni costo fa una delle sue leggi irrinunciabili, quella della Raffai fu una scelta anomala. Come anomalo era stato il suo professionismo. E forse chissà – anche condizionato dal logorìo emotivo che un lavoro bello ma difficilissimo come il suo inevitabilmente – doveva aver prodotto.